In Italia un rapporto di lavoro dipendente dura in media 13 anni.
Nessun Paese europeo registra un dato più alto, la media si attesta intorno agli 8 anni.
Questo primato è confermato anche dai dati Eurostat: l’Italia è terza in classifica per numero di occupati che lavorano alle dipendenze dello stesso datore di lavoro da più di 10 anni, più del 50%, Slovenia e Portogallo superano anch’esse questa percentuale, contro un media europea del 44% e valori poco al di sopra del 30% di Svezia e Danimarca.
Questi dati possono essere letti e interpretati sotto diversi aspetti.
Da un lato c’è l’aspetto culturale, legato perlopiù ad un’idea di stabilità garantita dal posto fisso.
In un mercato del lavoro particolarmente instabile, il posto fisso diventa una prospettiva molto ambita, poiché la stabilità lavorativa permette alle persone, per esempio, di fare progetti a lungo termine, come può essere acquistare una casa o fare un figlio. Questo elemento, unito alla scarsa mobilità del mercato del lavoro, contribuisce ad alimentare questa cultura del posto fisso, che contraddistingue l’Italia e, in generale, i Paesi dell’Europa del Sud.
Tuttavia, negli ultimi anni, la situazione sembrerebbe cambiare.
Secondo un sondaggio SWG, effettuato in Italia, ad oggi solo il 25% degli intervistati riconosce come caratteristica irrinunciabile quella del posto fisso, contro il 48% del 2003.
Le priorità delle persone stanno cambiando: ma l’infrastruttura, che governa la mobilità e la ricollocabilità nel mondo del lavoro, si sta adeguando a queste mutate condizioni?